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Savona - Tra Carbuta e Cravarezza, microscopiche frazione della piccola Calice, c’è una mulattiera che gli abitanti del luogo chiamano “la posa dei morti”. In passato per quella strada si trasportavano le bare a spalla e, durante il tragitto, ci si fermava a posarle per terra prima di arrivare ad un campo che s’era improvvisato camposanto. A pochi metri, oggi, sorge il piccolo cimitero di Carbuta: neanche duecento metri quadri di tombe e piccole cappelle di famiglia.
E’ qui che, nella notte tra giovedì e venerdì scorso, è stato stuprato il ricordo di Andreina Bove, morta 24 anni fa all’età di ventiquattro anni. A ricostruire la scena sembra di vedere un film di Dario Argento. Figure che si muovono con il buio e che entrano nel cimitero. Prendono a picconate la cappelletta in cui Andreina riposa dall’89 con i nonni. Tirano fuori la bara. La gettano per terra. Il legno cede. Ma non basta. L’accanimento va avanti, lo sfregio si fa ancora più blasfemo. I vandali danneggiano anche la laminatura zincata che ricopre i resti della 24enne. «Quella mattina la puzza di cadavere arrivava fino in paese» racconta un anziano.
È la storia di una violenza che fa paura. Ripetuta negli anni – tre profanazioni della stessa tomba negli ultimi quattro anni - reiterata come un rito malvagio. Corroborata da sfregi, gomme tagliate, capannoni incendiati, auto semidistrutte. Avendo sempre nel mirino la stessa famiglia. Una faida da romanzo noir impensabile da queste parti: Carbuta è una frazione in cui abitano meno di trecento anime. Tutti si conoscono.
Le case sono diradate tra i boschi che salgono per la collina. Una ogni 150-200 metri. Un ristorante ch’è anche bar. L’unico rumore che può capitare di sentire per ore è il cinguettio di un uccello. I ciclisti passano i gruppi da cinque-sei interrompendo la monotonia. Ma è il guizzo di un momento: poi tutto torna come prima. Al ristorante i pochi clienti sono operai e il gestore s’è adattato proponendo un menù semplice: primo secondo, dolce e caffè. Tutto a dieci euro.
Gli operai lavorano ad un palazzone giallo che sta sorgendo come un fungo dopo la pioggia. Per arrivare alla seicentesca chiesetta di San Martino si passa tra curve e chicane che s’inerpicano sempre più in alto. La vista è da mozzare il fiato e abbraccia Calice in una stretta di serenità. La chiesa è chiusa: il parroco, don Perata, vive a Orco Feglino e sale su solo alla domenica per dir messa. Attaccate alla cappella ci sono due abitazioni. Citofonando alla prima risponde una donna. Senza voglia di parlare. «Ero via la settimana scorsa, non so nulla», risponde attraverso le fessure di una tapparella abbassata.
Il cimitero è immerso in un silenzio fuori dal tempo. Appena varcato il cancello, lasciato aperto a tutte le ore, stona la vista della cappelletta della famiglia Bove. Gli operai del Comune hanno pulito lo scempio. I resti del marmo sventrato sono ammucchiati più in là come cocci di un ricordo infranto, violentato nella sacralità del luogo.
Più giù, scendendo verso Calice, c’è una casetta rosa e gialla isolata come le altre. Qui vive la famiglia Bove: lei casalinga, lui ex camionista ora in pensione. Sono schivi, non vogliono parlare. Poi la voglia di sfogarsi ha la meglio e concedono poche battute. «Non ho idea di chi possa essere stato – racconta emozionato papà Bruno -. Non voglio parlare, tanto non serve a niente». La moglie resta in un silenzio rotto da un frase ripetuta come un mantra. «E’ una cosa terribile, una cosa terribile…».
Giuseppe Vicino è un ex archeologo in pensione. «È una storia che mette i brividi. I Bove sono persone perbene, grandi lavoratori. Qui in paese tutti pensano che questo gesto sia opera di più persone». Sul fatto indagano i carabinieri. Ma intanto, scendendo a Calice, si avverte che quello sfregio ha lasciato il segno. Liliana Gazzano, ex dipendente comunale.
«È un episodio scioccante che tocca uno di noi. A Calice ci conosciamo tutti. Ho paura, giuro, ho davvero paura che una cosa del genere possa succedere anche a me e alla mia famiglia. Mio marito mi dice di non uscire la sera». La paura è un virus che basta niente a inoculare. «Conosco Bruno da quarant’anni e conoscevo anche la ragazza morta – racconta il vicesindaco di Calice Mario Paonessa -. Sono andato personalmente al cimitero. Vedere quella bara buttata lì, sembrava di essere dentro a un film dell’orrore».
Fonte | Il SsecoloXIX
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