mercoledì 10 aprile 2013

Mobbing


Emarginazione e violenza psicologica trovano terreno fertile nella degenerazione del modo di competere nella società, di soddisfare gli interessi di gruppo e di interagire tra gli individui. Le persone che assistono in silenzio al misfatto o diventano complici suggellano un moderno crimine: il mobbing. 


DIRITTI SOCIALI - Il mobbing, nell'accezione più comune del termine, identifica un insieme di comportamenti violenti (angherie, vessazioni, demansionamento, emarginazione, umiliazioni, maldicenze, ostracizzazione, etc.), a volte sfocianti in vera e propria violenza fisica, perpetrati da parte di uno o più individui nei confronti di un altro individuo, prolungato nel tempo e lesivo della dignità personale e professionale nonché della salute psicofisica dello stesso.

I singoli atteggiamenti molesti (o emulativi) non raggiungono necessariamente la soglia del reato né debbono essere di per sé illegittimi, ma nell'insieme producono danneggiamenti plurioffensivi anche gravi con conseguenze sul patrimonio della vittima, la sua salute, la sua esistenza.
Più in generale, il termine indica i comportamenti violenti che un gruppo (sociale, familiare, animale) rivolge ad un suo membro. Il termine viene spesso utilizzato nel mondo del lavoro.

ETIMOLOGIA DEL TERMINE

Il termine mobbing è stato coniato agli inizi degli anni settanta dall'etologo Konrad Lorenz per descrivere un particolare comportamento aggressivo tra individui della stessa specie con l'obbiettivo di escludere un membro dello stesso gruppo. In etologia, particolarmente in ornitologia, mobbing indica anche il comportamento di gruppi di uccelli di piccola taglia nell'atto di respingere un rapace loro predatore.

Mobbing è un gerundio sostantivato inglese derivato da "mob" (coniato nel 1688 secondo il dizionario Merriam-Webster), dall'espressione latina "mobile vulgus", che significa "gentaglia (mobile)", cioè "una folla grande e disordinata", soprattutto "dedita al vandalismo e alle sommosse".

Da qui il significato assunse presso le classi sociali più elevate anche una connotazione spregiativa, per cui "mob" era, anche in assenza di azioni violente, equivalente pressappoco all'italiano "plebaglia".

Al termine mobbing è correlato anche il lemma - di uso nello slang statunitense - mobster, che indica genericamente chi appartenga alla malavita o adotti un comportamento malavitoso. In italiano è inoltre derivato il verbo "mobbizzare", col significato di "compiere azioni di mobbing", e ad esso sono collegati i termini "mobbizzatore" (o "mobber"), per indicare colui che perpetra l'attacco, "mobbizzato" (o "mobbed") per indicare la vittima, e "mobbizzazione", sinonimo di mobbing.

Nei paesi anglofoni, per indicare la violenza psicologica sul posto di lavoro, che in Italia, abbiamo visto, è l'accezione più comune di mobbing, si utilizzano lemmi più specifici: harassment (utilizzato anche per molestie domestiche), abuse (maltrattamento), intimidation (intimidazione).

IL MOBBING NEI VARI AMBIENTI

SUL LAVORO

Questa pratica è spesso condotta con il fine di indurre la vittima ad abbandonare da sé il lavoro, senza quindi ricorrere al licenziamento (che potrebbe causare imbarazzo all'azienda) o per ritorsione a seguito di comportamenti non condivisi (ad esempio, denuncia ai superiori o all'esterno di irregolarità sul posto di lavoro), o per il rifiuto della vittima di sottostare a proposte o richieste immorali (sessuali, di eseguire operazioni contrarie a divieti deontologici o etici, etc.) o illegali.
Per potersi parlare di mobbing, l'attività persecutoria deve essere funzionale alla espulsione del lavoratore, causandogli una serie di ripercussioni psico-fisiche che spesso sfociano in specifiche malattie (disturbo da disadattamento lavorativo, disturbo post-traumatico da stress) ad andamento cronico.

Va peraltro sottolineato che l'attività mobbizzante può anche non essere di per sé illecita o illegittima o immediatamente lesiva, dovendosi invece considerare la sommatoria dei singoli episodi che nel loro insieme tendono a produrre il danno nel tempo. In effetti, l'ingiustizia del danno, vale a dire dell'evento lesivo non previsto né giustificato da alcuna norma dell’Ordinamento giuridico, deve essere sempre ricercata valutando unitariamente e complessivamente i diversi atti, intesi nel senso di comportamenti e/o provvedimenti.

Si distingue, nella prassi, fra mobbing gerarchico o verticale e mobbing ambientale o orizzontale; nel primo caso gli abusi sono commessi da superiori gerarchici della vittima, nel secondo caso sono i colleghi della vittima ad isolarla, a privarla apertamente della ordinaria collaborazione, dell'usuale dialogo e del rispetto.

Si parla di mobbing dall'alto, o bossing quando l'attività è condotta da un superiore al fine di costringere alle dimissioni un dipendente in particolare, ad es. perché antipatico, poco competente o poco produttivo; in questo caso, le attività di mobbing possono estendersi anche ai colleghi (i side mobber), che preferiscono assecondare il superiore, o quantomeno non prendere le difese della vittima, per non inimicarsi il capo, nella speranza di fare carriera, o semplicemente per "quieto vivere". Si definisce invece mobbing tra pari quello praticato da parte dei colleghi verso un lavoratore non integrato nell'organizzazione lavorativa per motivi d'incompatibilità ambientale o caratteriale, ad es. per i diversi interessi sportivi, per motivi etnici o religiosi oppure perché diversamente abile, oppure il mobbing dal basso; generalmente la causa scatenante del mobbing orizzontale non sono tanto le incompatibilità all'interno dell'ambiente di lavoro quanto una reazione da parte di una maggioranza del gruppo allo stress dell'ambiente e delle attività lavorative: la vittima viene dunque utilizzata come "capro espiatorio" su cui far ricadere la colpa della disorganizzazione, delle inefficienze e dei fallimenti. Il mobbing strategico si ha quando l'attività vessatoria e dequalificante tende ad espellere il lavoratore, per far posto ad un altro lavoratore (di solito in posizioni di dirigenza o apicali). Il Bossing è un termine che indica azioni compiute dalla direzione o dall'amministrazione del personale e che assume i contorni di una vera e propria strategia aziendale, volta alla riduzione, ringiovanimento o razionalizzazione del personale, oppure alla semplice eliminazione di una persona indesiderata. Viene attuato con il preciso scopo di indurre il dipendente alle dimissioni. Può attuarsi in modalità differenti ma con lo scopo comune di creare un clima di tensione intollerabile.

In ogni caso, il mobbing è riferibile ad un complesso, sistematico e duraturo comportamento del datore di lavoro, che deve essere esaminato in tutti i suoi aspetti e nelle loro conseguenze, per creare un coacervo di stimoli lesivi che non può né deve essere frazionato o spezzettato in tanti singoli episodi, ciascuno dei quali aventi un proprio effetto sanitario ovvero giuridico. Anche perché si è soliti ammantare con solide motivazioni anche gli atti peggiori, sì da dare ad essi una parvenza di legittimità. Gli anzidetti concetti sono importanti per la dimostrazione giudiziale del mobbing.
Il primo a parlare di mobbing quale condizione di persecuzione psicologica nell'ambiente di lavoro è stato alla fine degli anni ottanta lo psicologo svedese Heinz Leymann che lo definiva come una comunicazione ostile e non etica diretta in maniera sistematica da parte di uno o più individui generalmente contro un singolo, progressivamente spinto in una posizione in cui è privo di appoggio e di difesa. In Italia è stato introdotto la tematica del mobbing dallo psicologo tedesco Harald Ege, che per primo nel 2002 ha pubblicato un metodo per il riconoscimento del danno da mobbing e del fenomeno stesso tramite il riconoscimento di 7 parametri (il cosiddetto metodo Ege 2002).

Secondo un'indagine del 1998, il 16% dei lavoratori inglesi denuncia di essere vittima di mobbing; l'Italia è ultima nella classifica UE con un 4,2%. Alcuni contratti sindacali, come quello dei metalmeccanici in Germania, prevedono un risarcimento di circa 250.000 euro per i lavoratori mobbizzati.

La pratica del mobbing sul posto di lavoro si esplica mediante la vessazione sistematica di un lavoratore dipendente o di un collega di lavoro con diversi metodi di violenza psicologica o addirittura fisica. Ad esempio: sottrazione ingiustificata di incarichi o della postazione di lavoro, dequalificazione delle mansioni a compiti banali (fare fotocopie, ricevere telefonate, compiti insignificanti, dequalificanti o con scarsa autonomia decisionale) così da rendere umiliante il prosieguo del lavoro; rimproveri e richiami, espressi in privato ed in pubblico anche per banalità; dotare il lavoratore di attrezzature di lavoro di scarsa qualità o obsolete, arredi scomodi, ambienti male illuminati; interrompere il flusso di informazioni necessario per l'attività (chiusura della casella di posta elettronica, restrizioni sull'accesso a Internet); continue visite fiscali in caso malattia (e spesso al ritorno al lavoro, la vittima trova la scrivania sgombra).

Insomma, un sistematico processo di "cancellazione" del lavoratore condotto con la progressiva preclusione di mezzi e relazioni interpersonali indispensabili allo svolgimento di una normale attività lavorativa. Altri elementi che fanno configurare il mobbing, possono essere "doppi sensi" o sottigliezze verbali quando si è in presenza del collega oggetto di mobbing, cambio di tono nel parlare quando un superiore si rivolge al collega vittima, dare pratiche da eseguire in fretta l'ultimo giorno utile. Un esempio può essere il seguente: un collega, in presenza di altri colleghi, li invita ad una cena chiedendo ad ognuno di loro "allora te l'ha detto Caio che stasera vieni con noi a cena?", mentre al collega mobbizzato dice invece "tu non vieni?". Molte volte succede che l'"ordine" di aggressione al collega mobbizzato venga dall'alto e sia finalizzato alle dimissioni di qualcuno. In questo caso i colleghi che effettuano il mobbing eseguono servilmente le disposizioni del superiore anche se il collega mobbizzato non ha fatto niente di male a loro. Tutte queste situazioni ed in genere gli attacchi verbali non sono facilmente traducibili in "prove certe" da utilizzare in un eventuale processo per cui è anche difficile dimostrare la situazione di aggressione.

Secondo l'INAIL, che per prima in Italia ha definito il mobbing lavorativo, qualificandolo come costrittività organizzativa, le possibili azioni traumatiche possono riguardare la marginalizzazione dall'attività lavorativa, lo svuotamento delle mansioni, la mancata assegnazione dei compiti lavorativi o degli strumenti di lavoro, i ripetuti trasferimenti ingiustificati, la prolungata attribuzione di compiti dequalificanti rispetto al profilo professionale posseduto o di compiti esorbitanti o eccessivi anche in relazione a eventuali condizioni di handicap psico-fisici, l'impedimento sistematico e strutturale all’accesso a notizie, la inadeguatezza strutturale e sistematica delle informazioni inerenti l’ordinaria attività di lavoro, l'esclusione reiterata da iniziative formative, il controllo esasperato ed eccessivo.

È quindi chiaro che il mobbing non è una malattia ma rappresenta il termine per indicare la complessiva attività ostile posta in essere solitamente da un datore di lavoro (pubblico o privato, da solo o in combutta) per demansionare il lavoratore, isolarlo e obbligarlo al trasferimento o alle dimissioni.

Le azioni rientranti nella categoria della costrittività organizzativa coinvolgono direttamente e in modo esplicito l’organizzazione del lavoro e la posizione lavorativa e possono assumere diverso rilievo ai fini del riconoscimento della natura professionale del danno conseguente (Paolo Pappone et Al. Patologia psichica da stress, mobbing e costrittività organizzativa).

La giurisprudenza dispone più frequentemente e facilmente il risarcimento del danno biologico, ma non del danno morale; il mobbing deve aver procurato una delle malattie documentate in letteratura medica per avere diritto a un'indennità dall'azienda.

In Italia, le tutele al licenziamento o trasferimento in altre sedi dei lavoratori sono maggiori che in altri Paesi ed è abbastanza diffusa la pratica di ricorso al mobbing per indurre nel lavoratore le dimissioni laddove il licenziamento è possibile solo per giusta causa (art.18 dello Statuto dei Lavoratori).

IL PROBLEMA SANITARIO

Il cammino che si prospetta a chi subisce mobbing, segue generalmente queste fasi:
1. Iniziale incredulità di fronte alla nuova situazione (“c’è forse un equivoco”, “non è possibile…”)
2. Aumento dello spirito di vigilanza (per avere conferme dall’esterno e per esaminare il proprio comportamento)
3. Fiducia di poter gestire isolamento e soprusi (“…capiranno”, “… si stancheranno”, “… passerà”)
4. Iniziale disagio e nervosismo (nella relazione con gli altri si insinua sfiducia e diffidenza)
5. Mortificazione e tensione (“…non me l’aspettavo”, “questo non lo dovevano fare”, “…glielo faccio vedere io”
6. Ansia, paura, aggressività (“agisco così…, no forse è meglio…, …ma poi, …ora basta…, da domani…”
7. Ossessione e rabbia (“devo…, non devo…, bisogna che…, non posso…”, “gliela faccio pagare”, “mi vendicherò”).
8. Fobie e somatizzazioni (attacchi di panico…, disturbi ai sensi…, …agli organi funzionali, …a quelli motori, …)
9. Cronicizzazione malanni… invalidità permanente

Oggi, fino al punto 6, la vittima è sola (la sua cura sembra non ricadere nella competenza di nessuno) mentre affronta la relazione con gli altri.

Dal punto 7, ricade nella competenza di medici e psicologi in quanto si ritrova alle prese con le proprie patologie o situazioni invalidanti.
L’interessato andrebbe sostenuto quando inizia a cercare aiuto, soprattutto prima che il mobbing renda manifeste le sue conseguenze.
La strada migliore si chiama “PREVENZIONE”.

Se riusciamo ad interrompere la sequenza nelle sue fasi iniziali, si possono evitare molte cause giudiziarie, problemi alla salute, degrado della convivenza e della produttività, danni economici e sociali.

La maggior parte dei potenziali casi di mobbing sono infatti (e per fortuna) interrotti nelle fasi iniziali del fenomeno. Gli individui rispondono in modo adeguato, con atteggiamenti e comportamenti che riescono a rompere il meccanismo.

Non tutti però possiedono tali caratteristiche e non sempre esistono le condizioni per metterle in atto efficacemente.
E’ tramite le persone interessate che riteniamo sia possibile attaccare il fenomeno ed interrompere la catena. Non ha importanza si tratti di mobbing premeditato oppure casuale. Non importa se sia causa di individui che prevaricano o di individui propensi a sentirsi vittime. All’interessato vanno offerti i supporti utili per affrontare la situazione:
- un supporto di tipo sociale,
- uno di tipo personale,
- uno di tipo legale.

IN FAMIGLIA

Questa pratica è condotta all'interno delle dinamiche relazionali coniugali e familiari ed è finalizzata alla delegittimazione di uno dei coniugi e alla estromissione di questo dai processi decisionali riguardanti la famiglia in genere e nello specifico i figli.

Il mobbing familiare più frequente è quello che coinvolge le famiglie separate e viene messo in pratica da parte del genitore affidatario nei confronti di quello non affidatario al fine di spezzare il legame genitoriale nei confronti dei figli.

Recenti studi e ricerche, come quelli dell'Osservatorio Permanente Interassociativo sulla Famiglia e Minori dell'Istituto degli Studi Giuridici Superiori o come quello dell'Osservatorio della Federazione Nazionale per la Bigenitorialità hanno evidenziato come questo particolare tipo di mobbing stia diventando sempre più frequente nelle relazioni coniugali contraddistinte da una intensa conflittualità.
In alcuni casi, il mobbing familiare si presenta attraverso una serie di strategie "persecutorie" preordinate da parte di uno dei coniugi nei confronti dell'altro coniuge, allo scopo di costringere quest'ultimo a lasciare la casa coniugale o ad acconsentire, ad esempio, a una separazione consensuale, pur di chiudere rapporti coniugali fortemente conflittuali.

Dal mobbing familiare si distingue, secondo un autore, il "mobbing genitoriale", termine che sarebbe da riservarsi alle contese in corso di separazione coniugale in cui vi siano comportamenti finalizzati ad escludere l'altro genitore dall'esercizio della propria genitorialità. Il c.d. "mobbing genitoriale" sarebbe riconducibile a quattro casi (spesso erroneamente citati come casi di mobbing familiare):
                     sabotaggi delle frequentazioni con il figlio,
                     emarginazione dai processi decisionali tipici dei genitori,
                     minacce,
                     denigrazione e delegittimazione familiare e sociale.
Lo psicologo del lavoro Harald Ege, obietta che "Non ha alcun senso parlare di mobbing al di fuori del contesto lavorativo" e conclude: "Lasciamo però da parte il termine mobbing per ciò che riguarda quei conflitti che si generano al di fuori di quel che succede sul posto di lavoro: chiamiamo quest'ultimi con il proprio nome e affrontiamoli con gli strumenti più adatti al caso specifico!" Quindi, secondo Ege, il concetto di mobbing familiare non sarebbe scientificamente attendibile.

A SCUOLA

Il mobbing a scuola è forma di “vessazione di branco” che spesso si confonde con il bullismo ovvero con una sorta di bullismo di gruppo organizzato ai danni di un compagno di classe.
Esiste anche in ambiente scolastico, benché più denunciato sui media che studiato e analizzato, una forma particolare di mobbing “dall’alto”, ossia praticato da un insegnante a danno di uno o più allievi, attraverso: espressioni sistematicamente denigratorie e/o provvedimenti disciplinari persecutori, valutazioni o giudizi ingiustificatamente negativi.

Fenomeno in aumento, anche se poco conosciuto e ancor meno studiato, il mobbing di studenti più o meno organizzati nei confronti di insegnanti ritenuti deboli e non in grado di mantenere la disciplina in classe, mobbing che tende a voler nascondere le proprie mancate responsabilità nei confronti dello studio, della disciplina e del rispetto delle regole.

NELLA SOCIETÀ

Forme di mobbing, orizzontale o verticale, raramente rilevanti dal punto di vista giuridico, sono distinguibili anche in varie tipologie di aggregazione sociale non legate a professioni o ambiti lavorativi, ad esempio: studenti, amici, colleghi, gruppi o bande giovanili, circoli sportivi, associazioni amatoriali, società filantropiche ecc. Di solito lo scopo è quello di indurre un membro non gradito all’autoallontanamento spontaneo dal gruppo o associazione, attraverso tutta una serie di pressioni e vessazioni di tipo morale o psicologico.

La materia in questione interessa di norma più l’analisi psicologica (psicologia dei gruppi) e sociologica (sociologia delle relazioni interpersonali) che non quella giuridica.
Possiamo prendere come esempi anche gli atti denigratori all'interno dei reality-show (es. Grande Fratello).

CONSEGUENZE SULLA SALUTE

Il mobbing non è una malattia ma può esserne la causa. La patologia psichiatrica più frequentemente associata è il disturbo dell'adattamento; esso si compone di una variegata sintomatologia ansioso-depressiva reattiva all'evento stressogeno. Fra le conseguenze rientrano la perdita d'autostima, depressione, insonnia, isolamento. Il mobbing è causa di cefalea, annebbiamenti della vista, tremore, tachicardia, sudorazione fredda, gastrite, dermatosi. Le conseguenze maggiori sono disturbi della socialità, quindi, nevrosi, depressione, isolamento sociale e suicidio, in un numero non trascurabile di casi.

In Italia il numero di vittime del mobbing è stimato intorno a 1 milione e 200 mila, che salgono a 5 milioni se si considerano anche le famiglie. In Svezia e Germania circa mezzo milione di persone hanno dovuto ricorrere al prepensionamento o a cliniche psichiatriche a causa del mobbing.
Negli ultimi dieci anni i casi di mobbing denunciati hanno avuto un incremento esponenziale. Il mobbing ha un forte costo sociale stimato il 190% superiore al salario annuo lordo di un dipendente non mobbizzato. In Svezia si stima che il mobbing sia causa del 20% dei suicidi.

Nei primi anni '90, lo psicologo svedese Leymann tenne in Italia una serie di conferenze che diedero inizio al dibattito nazionale sul mobbing, con una decina d'anni di ritardo rispetto a Svezia e Germania. Leymann estese il dibattito sul mobbing dapprima in Germania e poi nel resto dei Paesi UE.

LA TUTELA GIURIDICA

Un libro verde del Parlamento Europeo, "Il mobbing sul posto di lavoro", del 16 luglio 2001, introduceva il dibattito in tema di mobbing in sede comunitaria.
La successiva risoluzione del Parlamento europeo sul mobbing sul posto di lavoro -2001/2339(INI) - è uno dei primi riferimenti normativi in materia, non recepito nell'ordinamento italiano.

La risoluzione non è stata seguita da una direttiva europea, che obbligasse gli Stati membri a legiferare in tema di mobbing.

IN ITALIA

In Italia non esiste una legge in materia di mobbing e quindi il mobbing non è configurato come specifico reato a sé stante. Gli atti di mobbing possono però rientrare in altre fattispecie di reato, previste dal codice penale, quali le lesioni personali gravi o gravissime, anche colpose che sono perseguibili di ufficio e si ritengono di fatto sussistenti nel caso di riconoscimento dell'origine professionale della malattia. La legge italiana disciplina anche il risarcimento del danno biologico, associabile a situazioni di mobbing.

La Costituzione italiana (artt. 2-3-4-32-35-36-41-42) tutela la persona in tutte le sue fasi esistenziali, da quella di cittadino a quella di lavoratore. Inoltre, sul datore di lavoro grava l’obbligo contrattuale, derivante dall’art. 2087 cod. civ., di tutelare la salute e la personalità morale del dipendente. La Corte di Cassazione ha ritenuto[8] che un’iniziativa diretta alla repressione, non già alla prevenzione dei fatti mobbizzanti non è idonea a costituire adempimento agli obblighi previsti dall’art. 2087 cod. civ. Molti comportamenti che caratterizzano il mobbing trovano inoltre una precisa connotazione in numerosi articoli del codice penale (abuso d'ufficio, percosse, lesione personale volontarie, ingiuria, diffamazione, minaccia, molestie).

Una sentenza del Tribunale di Pisa afferma la non computabilità nella durata della malattia delle assenze riconducibili alla violazione dell’obbligo aziendale di non aggravamento del compromesso stato di salute del dipendente.

Un successiva sentenza della Corte di Cassazione, la n. 572 del 2002, stabilisce che un periodo di malattia eccedente i limiti previsti nel Contratto Collettivo di riferimento non è giustificato motivo soggettivo di licenziamento, se la malattia o invalidità permanente del lavoratore hanno una causa prevalente nell'attività lavorativa, oppure se, sopraggiunte per cause indipendenti, trovano nell'attività lavorativa una concausa aggravante, e il datore non adibisce il lavoratore ad altre mansioni, purché sussistano in azienda.

La non computabilità nella durata del periodo di malattia può essere interpretata come estensione de facto del limite dei tre mesi, oltre il quale i CCNL legittimano il licenziamento, oppure in un completo onere a carico del datore di lavoro, che deve corrispondere il 100% della retribuzione per i periodi di assenza non coperti dall'indennità di malattia.

Nel primo caso, quota superiore al 50% della retribuzione è a carico dell'ente previdenziale, come previsto per le assenze prolungate. L'INPS può, in generale, però esercitare diritto di rivalsa su chi ha determinato la malattia/invalidità e il pagamento della relativa indennità, come chi causa un incidente stradale, o, nel caso in esame, il datore di lavoro.

L’accertamento del danno da mobbing esige «una valutazione unitaria degli episodi denunciati dal lavoratore, i quali raggiungono la soglia del mobbing ove assumano le caratteristiche di una persecuzione, per la loro sistematicità e la durata dell’azione nel tempo».
Secondo l’avviso della Corte Costituzionale, infatti, gli atti posti in essere possono risultare "se esaminati singolarmente, anche leciti, legittimi o irrilevanti dal punto di vista giuridico", assumendo, purtuttavia, "rilievo quali elementi della complessiva condotta caratterizzata nel suo insieme dall’effetto" e risolvendosi, normalmente, in «disturbi di vario tipo e, a volte, patologie psicotiche, complessivamente indicati come sindrome da stress postraumatico».

La più frequente azione da mobbing consiste nel dequalificare il lavoratore per demotivarlo, farlo ammalare e costringerlo alle dimissioni, considerando che, sul piano giuridico, il demansionamento è vietato perché costituisce sempre lesione del diritto fondamentale alla libera esplicazione della personalità del lavoratore nel luogo di lavoro, tutelato dagli artt. 1 e 2 della Costituzione; il danno che ne deriva è suscettibile di per sé, di risarcimento (Cass. sez. lav. 12 nov. 2002, n. 15868; Corte d’Appello di Salerno, sez. lav., 17 aprile 2002).

In effetti, il mobbing sul posto di lavoro può realizzarsi con comportamenti datoriali, materiali o provvedimentali, indipendentemente dall'inadempimento di specifichi obblighi contrattuali o dalla violazione di specifiche norme attinenti alla tutela del lavoratore subordinato. Quindi l'esistenza della lesione del bene protetto e delle conseguenze deve essere valutata nel complesso degli episodi dedotti in giudizio come lesivi, considerando l'idoneità offensiva della condotta, che può essere dimostrata, per la sistematicità e durata dell'azione nel tempo, dalle sue caratteristiche oggettive di persecuzione e discriminazione, risultanti specificamente da una connotazione emulativa e pretestuosa (Corte di Cassazione, sentenza n. 4774 del 6 marzo 2006, da Legge e Giustizia Lettera telematica di notizie - Direttore responsabile Domenico d'Amati).

Riguardo la condotta, la Corte di Cassazione ha statuito che per mobbing si intende una condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico, sistematica e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del lavoratore nell’ambiente di lavoro, che si risolve in sistematici e reiterati comportamenti ostili che finiscono per assumere forme di prevaricazione e di persecuzione psicologica, da cui può conseguire la mortificazione morale e l’emarginazione del dipendente, con effetto lesivo del suo equilibrio fisio-psichico e del complesso della sua personalità. La prova di tale condotta involge un giudizio di merito non censurabile in sede di legittimità. (Cass. 31/05/2011 n. 12048).

In proposito dobbiamo ricordare che il Testo unico sulla sicurezza sul lavoro (come modificato dal d.lgs. 3 agosto 2009 n. 106), pur non occupandosi esplicitamente del fenomeno, ha previsto, presso Ministero del Lavoro, della Salute e delle Politiche Sociali l'istituzione della Commissione consultiva permanente per la salute e sicurezza sul lavoro[15][16] prevedendo tra le sue competenze l'elabirazione delle indicazioni necessarie alla valutazione del rischio da stress lavoro-correlato. Il testo unico ha inoltre disposto che, a fare data dal 1° agosto 2010:
« La valutazione dello stress lavoro-correlato di cui al comma 1 e' effettuata nel rispetto delle indicazioni di cui all'articolo 6, comma 8, lettera m-quater), e il relativo obbligo decorre dalla elaborazione delle predette indicazioni e comunque, anche in difetto di tale elaborazione».

INIZIATIVE LEGISLATIVE

Presso il Parlamento italiano sono depositati diversi disegni di legge sul tema; manca invece un orientamento comunitario in tema di mobbing.[senza fonte] Un primo disegno di legge del 21 marzo 2002, presentato da senatori di Rifondazione Comunista, è stato ripreso da una commissione tecnico-scientifica nominata dal Ministro della Funzione Pubblica Franco Frattini, durante il primo governo Berlusconi. La Commissione aveva l'incarico di accertare le cause di improduttività del personale nella Pubblica Amministrazione ed era giunta a definire un protocollo medico oggettivo del quale il giudice del lavoro poteva avvalersi per accertare le cause di mobbing.

Il disegno di legge, poi bloccato, conteneva la proposta di spostare la competenza delle cause di mobbing dai tribunali ordinari alle preture del lavoro, con sentenze immediatamente esecutive, e opponibili nel termine di 15 giorni, riportando le cause di mobbing dai tempi di una causa civili alla celerità dei contenziosi in materia di diritto del lavoro. La legge definiva il responsabile per la sicurezza, non la controparte sindacale, ma il riferimento in azienda per le vittime di mobbing, prevedeva rapidità nei risarcimenti, e conferiva al giudice poteri di intervento nell'organizzazione aziendale per porre fine a pratiche di mobbing.

TUTELA GIURIDICA NEGLI ALTRI PAESI

In Germania sono diffusi sul territorio centri d'ascolto a cui rivolgersi in caso di molestie morali nelle aziende di maggiori dimensioni. Sempre in Germania è previsto il prepensionamento a carico dell'azienda per i dipendenti riconosciuti vittime di mobbing.

In Svezia c'è la prima e più avanzata legislazione che prevede un reato di mobbing. La Svezia ha in generale un'attenzione ai diritti umani che ha favorito il dibattito sulle molestie morali.
Gli Stati Uniti hanno una delle prime e più severi leggi sulle molestie sessuali sul posto di lavoro, ma poca attenzione per questa materia.

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