Emarginazione e violenza psicologica trovano terreno fertile nella
degenerazione del modo di competere nella società, di soddisfare gli
interessi di gruppo e di interagire tra gli individui.
Le persone che assistono in silenzio al misfatto o diventano complici suggellano un moderno crimine: il mobbing.
DIRITTI SOCIALI - Il mobbing,
nell'accezione più comune del termine, identifica un insieme di comportamenti
violenti (angherie, vessazioni, demansionamento, emarginazione, umiliazioni,
maldicenze, ostracizzazione, etc.), a volte sfocianti in vera e propria
violenza fisica, perpetrati da parte di uno o più individui nei confronti di un
altro individuo, prolungato nel tempo e lesivo della dignità personale e
professionale nonché della salute psicofisica dello stesso.
I singoli
atteggiamenti molesti (o emulativi) non raggiungono necessariamente la soglia
del reato né debbono essere di per sé illegittimi, ma nell'insieme producono
danneggiamenti plurioffensivi anche gravi con conseguenze sul patrimonio della
vittima, la sua salute, la sua esistenza.
Più in
generale, il termine indica i comportamenti violenti che un gruppo (sociale,
familiare, animale) rivolge ad un suo membro. Il termine viene spesso
utilizzato nel mondo del lavoro.
ETIMOLOGIA
DEL TERMINE
Il termine mobbing è stato coniato agli inizi degli
anni settanta dall'etologo Konrad Lorenz
per descrivere un particolare comportamento aggressivo tra individui della
stessa specie con l'obbiettivo di escludere un membro dello stesso gruppo. In
etologia, particolarmente in ornitologia, mobbing indica anche il comportamento
di gruppi di uccelli di piccola taglia nell'atto di respingere un rapace loro
predatore.
Mobbing è un
gerundio sostantivato inglese derivato da "mob" (coniato nel 1688 secondo il dizionario Merriam-Webster), dall'espressione
latina "mobile vulgus", che
significa "gentaglia (mobile)",
cioè "una folla grande e disordinata",
soprattutto "dedita al vandalismo e
alle sommosse".
Da qui il
significato assunse presso le classi sociali più elevate anche una connotazione
spregiativa, per cui "mob"
era, anche in assenza di azioni violente, equivalente pressappoco all'italiano
"plebaglia".
Al termine
mobbing è correlato anche il lemma - di uso nello slang statunitense - mobster, che indica genericamente chi
appartenga alla malavita o adotti un comportamento malavitoso. In italiano è
inoltre derivato il verbo "mobbizzare",
col significato di "compiere azioni
di mobbing", e ad esso sono collegati i termini "mobbizzatore" (o "mobber"), per indicare colui che
perpetra l'attacco, "mobbizzato"
(o "mobbed") per indicare
la vittima, e "mobbizzazione",
sinonimo di mobbing.
Nei paesi
anglofoni, per indicare la violenza psicologica sul posto di lavoro, che in
Italia, abbiamo visto, è l'accezione più comune di mobbing, si utilizzano lemmi
più specifici: harassment (utilizzato
anche per molestie domestiche), abuse
(maltrattamento), intimidation
(intimidazione).
IL MOBBING NEI VARI AMBIENTI
SUL LAVORO
Questa
pratica è spesso condotta con il fine di indurre la vittima ad abbandonare da
sé il lavoro, senza quindi ricorrere al licenziamento (che potrebbe causare
imbarazzo all'azienda) o per ritorsione a seguito di comportamenti non
condivisi (ad esempio, denuncia ai superiori o all'esterno di irregolarità sul
posto di lavoro), o per il rifiuto della vittima di sottostare a proposte o
richieste immorali (sessuali, di eseguire operazioni contrarie a divieti deontologici
o etici, etc.) o illegali.
Per potersi
parlare di mobbing, l'attività persecutoria deve essere funzionale alla
espulsione del lavoratore, causandogli una serie di ripercussioni psico-fisiche
che spesso sfociano in specifiche malattie (disturbo da disadattamento
lavorativo, disturbo post-traumatico da stress) ad andamento cronico.
Va peraltro
sottolineato che l'attività mobbizzante può anche non essere di per sé illecita
o illegittima o immediatamente lesiva, dovendosi invece considerare la
sommatoria dei singoli episodi che nel loro insieme tendono a produrre il danno
nel tempo. In effetti, l'ingiustizia del danno, vale a dire dell'evento lesivo
non previsto né giustificato da alcuna norma dell’Ordinamento giuridico, deve
essere sempre ricercata valutando unitariamente e complessivamente i diversi
atti, intesi nel senso di comportamenti e/o provvedimenti.
Si
distingue, nella prassi, fra mobbing gerarchico o verticale e mobbing
ambientale o orizzontale; nel primo caso gli abusi sono commessi da superiori
gerarchici della vittima, nel secondo caso sono i colleghi della vittima ad
isolarla, a privarla apertamente della ordinaria collaborazione, dell'usuale
dialogo e del rispetto.
Si parla di mobbing dall'alto, o bossing quando l'attività è condotta da un superiore al fine di
costringere alle dimissioni un dipendente in particolare, ad es. perché
antipatico, poco competente o poco produttivo; in questo caso, le attività di
mobbing possono estendersi anche ai colleghi (i side mobber), che preferiscono assecondare il superiore, o
quantomeno non prendere le difese della vittima, per non inimicarsi il capo,
nella speranza di fare carriera, o semplicemente per "quieto vivere".
Si definisce invece mobbing tra pari
quello praticato da parte dei colleghi verso un lavoratore non integrato
nell'organizzazione lavorativa per motivi d'incompatibilità ambientale o
caratteriale, ad es. per i diversi interessi sportivi, per motivi etnici o
religiosi oppure perché diversamente abile, oppure il mobbing dal basso; generalmente la causa scatenante del mobbing orizzontale non sono tanto le
incompatibilità all'interno dell'ambiente di lavoro quanto una reazione da
parte di una maggioranza del gruppo allo stress dell'ambiente e delle attività
lavorative: la vittima viene dunque utilizzata come "capro espiatorio" su cui far ricadere la colpa della
disorganizzazione, delle inefficienze e dei fallimenti. Il mobbing strategico si ha quando l'attività vessatoria e
dequalificante tende ad espellere il lavoratore, per far posto ad un altro
lavoratore (di solito in posizioni di dirigenza o apicali). Il Bossing è un termine che indica azioni
compiute dalla direzione o dall'amministrazione del personale e che assume i
contorni di una vera e propria strategia aziendale, volta alla riduzione,
ringiovanimento o razionalizzazione del personale, oppure alla semplice
eliminazione di una persona indesiderata. Viene attuato con il preciso scopo di
indurre il dipendente alle dimissioni. Può attuarsi in modalità differenti ma
con lo scopo comune di creare un clima di tensione intollerabile.
In ogni
caso, il mobbing è riferibile ad un complesso, sistematico e duraturo
comportamento del datore di lavoro, che deve essere esaminato in tutti i suoi
aspetti e nelle loro conseguenze, per creare un coacervo di stimoli lesivi che
non può né deve essere frazionato o spezzettato in tanti singoli episodi,
ciascuno dei quali aventi un proprio effetto sanitario ovvero giuridico. Anche
perché si è soliti ammantare con solide motivazioni anche gli atti peggiori, sì
da dare ad essi una parvenza di legittimità. Gli anzidetti concetti sono
importanti per la dimostrazione giudiziale del mobbing.
Il primo a
parlare di mobbing quale condizione di persecuzione psicologica nell'ambiente
di lavoro è stato alla fine degli anni ottanta lo psicologo svedese Heinz Leymann che lo definiva come una
comunicazione ostile e non etica diretta in maniera sistematica da parte di uno
o più individui generalmente contro un singolo, progressivamente spinto in una
posizione in cui è privo di appoggio e di difesa. In Italia è stato introdotto
la tematica del mobbing dallo psicologo tedesco Harald Ege, che per primo nel 2002 ha pubblicato un metodo per il
riconoscimento del danno da mobbing e del fenomeno stesso tramite il
riconoscimento di 7 parametri (il
cosiddetto metodo Ege 2002).
Secondo
un'indagine del 1998, il 16% dei lavoratori inglesi denuncia di essere vittima
di mobbing; l'Italia è ultima nella classifica UE con un 4,2%. Alcuni contratti
sindacali, come quello dei metalmeccanici in Germania, prevedono un
risarcimento di circa 250.000 euro per i lavoratori mobbizzati.
La pratica
del mobbing sul posto di lavoro si esplica mediante la vessazione sistematica
di un lavoratore dipendente o di un collega di lavoro con diversi metodi di
violenza psicologica o addirittura fisica. Ad esempio: sottrazione
ingiustificata di incarichi o della postazione di lavoro, dequalificazione
delle mansioni a compiti banali (fare fotocopie, ricevere telefonate, compiti
insignificanti, dequalificanti o con scarsa autonomia decisionale) così da
rendere umiliante il prosieguo del lavoro; rimproveri e richiami, espressi in
privato ed in pubblico anche per banalità; dotare il lavoratore di attrezzature
di lavoro di scarsa qualità o obsolete, arredi scomodi, ambienti male
illuminati; interrompere il flusso di informazioni necessario per l'attività
(chiusura della casella di posta elettronica, restrizioni sull'accesso a
Internet); continue visite fiscali in caso malattia (e spesso al ritorno al
lavoro, la vittima trova la scrivania sgombra).
Insomma, un
sistematico processo di "cancellazione" del lavoratore condotto con
la progressiva preclusione di mezzi e relazioni interpersonali indispensabili
allo svolgimento di una normale attività lavorativa. Altri elementi che fanno
configurare il mobbing, possono essere "doppi sensi" o sottigliezze
verbali quando si è in presenza del collega oggetto di mobbing, cambio di tono
nel parlare quando un superiore si rivolge al collega vittima, dare pratiche da
eseguire in fretta l'ultimo giorno utile. Un esempio può essere il seguente: un
collega, in presenza di altri colleghi, li invita ad una cena chiedendo ad
ognuno di loro "allora te l'ha detto Caio che stasera vieni con noi a
cena?", mentre al collega mobbizzato dice invece "tu non vieni?".
Molte volte succede che l'"ordine" di aggressione al collega
mobbizzato venga dall'alto e sia finalizzato alle dimissioni di qualcuno. In
questo caso i colleghi che effettuano il mobbing eseguono servilmente le
disposizioni del superiore anche se il collega mobbizzato non ha fatto niente
di male a loro. Tutte queste situazioni ed in genere gli attacchi verbali non
sono facilmente traducibili in "prove certe" da utilizzare in un
eventuale processo per cui è anche difficile dimostrare la situazione di
aggressione.
Secondo
l'INAIL, che per prima in Italia ha definito il mobbing lavorativo,
qualificandolo come costrittività organizzativa, le possibili azioni
traumatiche possono riguardare la marginalizzazione dall'attività lavorativa,
lo svuotamento delle mansioni, la mancata assegnazione dei compiti lavorativi o
degli strumenti di lavoro, i ripetuti trasferimenti ingiustificati, la
prolungata attribuzione di compiti dequalificanti rispetto al profilo
professionale posseduto o di compiti esorbitanti o eccessivi anche in relazione
a eventuali condizioni di handicap psico-fisici, l'impedimento sistematico e
strutturale all’accesso a notizie, la inadeguatezza strutturale e sistematica
delle informazioni inerenti l’ordinaria attività di lavoro, l'esclusione
reiterata da iniziative formative, il controllo esasperato ed eccessivo.
È quindi
chiaro che il mobbing non è una malattia ma rappresenta il termine per indicare
la complessiva attività ostile posta in essere solitamente da un datore di
lavoro (pubblico o privato, da solo o in combutta) per demansionare il
lavoratore, isolarlo e obbligarlo al trasferimento o alle dimissioni.
Le azioni
rientranti nella categoria della costrittività organizzativa coinvolgono
direttamente e in modo esplicito l’organizzazione del lavoro e la posizione
lavorativa e possono assumere diverso rilievo ai fini del riconoscimento della
natura professionale del danno conseguente (Paolo Pappone et Al. Patologia
psichica da stress, mobbing e costrittività organizzativa).
La
giurisprudenza dispone più frequentemente e facilmente il risarcimento del
danno biologico, ma non del danno morale; il mobbing deve aver procurato una
delle malattie documentate in letteratura medica per avere diritto a
un'indennità dall'azienda.
In Italia,
le tutele al licenziamento o trasferimento in altre sedi dei lavoratori sono
maggiori che in altri Paesi ed è abbastanza diffusa la pratica di ricorso al
mobbing per indurre nel lavoratore le dimissioni laddove il licenziamento è
possibile solo per giusta causa (art.18 dello Statuto dei Lavoratori).
IL PROBLEMA
SANITARIO
Il cammino
che si prospetta a chi subisce mobbing, segue generalmente queste fasi:
1. Iniziale incredulità di fronte
alla nuova situazione (“c’è forse un equivoco”, “non è possibile…”)
2. Aumento dello spirito di
vigilanza (per avere conferme dall’esterno e per esaminare il proprio
comportamento)
3. Fiducia di poter gestire
isolamento e soprusi (“…capiranno”, “… si stancheranno”, “… passerà”)
4. Iniziale disagio e nervosismo
(nella relazione con gli altri si insinua sfiducia e diffidenza)
5. Mortificazione e tensione (“…non
me l’aspettavo”, “questo non lo dovevano fare”, “…glielo faccio vedere io”
6. Ansia, paura, aggressività
(“agisco così…, no forse è meglio…, …ma poi, …ora basta…, da domani…”
7. Ossessione e rabbia (“devo…, non
devo…, bisogna che…, non posso…”, “gliela faccio pagare”, “mi vendicherò”).
8. Fobie e somatizzazioni (attacchi
di panico…, disturbi ai sensi…, …agli organi funzionali, …a quelli motori, …)
9. Cronicizzazione malanni… invalidità
permanente
Oggi, fino
al punto 6, la vittima è sola (la sua cura sembra non ricadere nella competenza
di nessuno) mentre affronta la relazione con gli altri.
Dal punto 7,
ricade nella competenza di medici e psicologi in quanto si ritrova alle prese
con le proprie patologie o situazioni invalidanti.
L’interessato
andrebbe sostenuto quando inizia a cercare aiuto, soprattutto prima che il
mobbing renda manifeste le sue conseguenze.
La strada
migliore si chiama “PREVENZIONE”.
Se riusciamo
ad interrompere la sequenza nelle sue fasi iniziali, si possono evitare molte
cause giudiziarie, problemi alla salute, degrado della convivenza e della
produttività, danni economici e sociali.
La maggior
parte dei potenziali casi di mobbing sono infatti (e per fortuna) interrotti
nelle fasi iniziali del fenomeno. Gli individui rispondono in modo adeguato,
con atteggiamenti e comportamenti che riescono a rompere il meccanismo.
Non tutti
però possiedono tali caratteristiche e non sempre esistono le condizioni per
metterle in atto efficacemente.
E’ tramite
le persone interessate che riteniamo sia possibile attaccare il fenomeno ed
interrompere la catena. Non ha importanza si tratti di mobbing premeditato
oppure casuale. Non importa se sia causa di individui che prevaricano o di
individui propensi a sentirsi vittime. All’interessato vanno offerti i supporti
utili per affrontare la situazione:
- un supporto di tipo sociale,
- uno di tipo personale,
- uno di tipo legale.
IN FAMIGLIA
Questa
pratica è condotta all'interno delle dinamiche relazionali coniugali e
familiari ed è finalizzata alla delegittimazione di uno dei coniugi e alla
estromissione di questo dai processi decisionali riguardanti la famiglia in genere
e nello specifico i figli.
Il mobbing
familiare più frequente è quello che coinvolge le famiglie separate e viene
messo in pratica da parte del genitore affidatario nei confronti di quello non
affidatario al fine di spezzare il legame genitoriale nei confronti dei figli.
Recenti
studi e ricerche, come quelli dell'Osservatorio Permanente Interassociativo
sulla Famiglia e Minori dell'Istituto degli Studi Giuridici Superiori o come
quello dell'Osservatorio della Federazione Nazionale per la Bigenitorialità
hanno evidenziato come questo particolare tipo di mobbing stia diventando
sempre più frequente nelle relazioni coniugali contraddistinte da una intensa
conflittualità.
In alcuni
casi, il mobbing familiare si presenta attraverso una serie di strategie
"persecutorie" preordinate da parte di uno dei coniugi nei confronti
dell'altro coniuge, allo scopo di costringere quest'ultimo a lasciare la casa
coniugale o ad acconsentire, ad esempio, a una separazione consensuale, pur di
chiudere rapporti coniugali fortemente conflittuali.
Dal mobbing
familiare si distingue, secondo un autore, il "mobbing genitoriale",
termine che sarebbe da riservarsi alle contese in corso di separazione
coniugale in cui vi siano comportamenti finalizzati ad escludere l'altro
genitore dall'esercizio della propria genitorialità. Il c.d. "mobbing
genitoriale" sarebbe riconducibile a quattro casi (spesso erroneamente
citati come casi di mobbing familiare):
•
sabotaggi delle frequentazioni con il figlio,
•
emarginazione dai processi decisionali tipici dei
genitori,
•
minacce,
•
denigrazione e delegittimazione familiare e sociale.
Lo psicologo
del lavoro Harald Ege, obietta che
"Non ha alcun senso parlare di mobbing al di fuori del contesto
lavorativo" e conclude: "Lasciamo però da parte il termine mobbing
per ciò che riguarda quei conflitti che si generano al di fuori di quel che
succede sul posto di lavoro: chiamiamo quest'ultimi con il proprio nome e
affrontiamoli con gli strumenti più adatti al caso specifico!" Quindi,
secondo Ege, il concetto di mobbing
familiare non sarebbe scientificamente attendibile.
A SCUOLA
Il mobbing a
scuola è forma di “vessazione di branco” che spesso si confonde con il bullismo
ovvero con una sorta di bullismo di gruppo organizzato ai danni di un compagno
di classe.
Esiste anche
in ambiente scolastico, benché più denunciato sui media che studiato e
analizzato, una forma particolare di mobbing “dall’alto”, ossia praticato da un
insegnante a danno di uno o più allievi, attraverso: espressioni sistematicamente
denigratorie e/o provvedimenti disciplinari persecutori, valutazioni o giudizi
ingiustificatamente negativi.
Fenomeno in
aumento, anche se poco conosciuto e ancor meno studiato, il mobbing di studenti
più o meno organizzati nei confronti di insegnanti ritenuti deboli e non in
grado di mantenere la disciplina in classe, mobbing che tende a voler
nascondere le proprie mancate responsabilità nei confronti dello studio, della
disciplina e del rispetto delle regole.
NELLA SOCIETÀ
Forme di
mobbing, orizzontale o verticale, raramente rilevanti dal punto di vista
giuridico, sono distinguibili anche in varie tipologie di aggregazione sociale
non legate a professioni o ambiti lavorativi, ad esempio: studenti, amici,
colleghi, gruppi o bande giovanili, circoli sportivi, associazioni amatoriali,
società filantropiche ecc. Di solito lo scopo è quello di indurre un membro non
gradito all’autoallontanamento spontaneo dal gruppo o associazione, attraverso
tutta una serie di pressioni e vessazioni di tipo morale o psicologico.
La materia
in questione interessa di norma più l’analisi psicologica (psicologia dei
gruppi) e sociologica (sociologia delle relazioni interpersonali) che non
quella giuridica.
Possiamo
prendere come esempi anche gli atti denigratori all'interno dei reality-show
(es. Grande Fratello).
CONSEGUENZE
SULLA SALUTE
Il mobbing
non è una malattia ma può esserne la causa. La patologia psichiatrica più
frequentemente associata è il disturbo dell'adattamento; esso si compone di una
variegata sintomatologia ansioso-depressiva reattiva all'evento stressogeno.
Fra le conseguenze rientrano la perdita d'autostima, depressione, insonnia,
isolamento. Il mobbing è causa di cefalea, annebbiamenti della vista, tremore,
tachicardia, sudorazione fredda, gastrite, dermatosi. Le conseguenze maggiori
sono disturbi della socialità, quindi, nevrosi, depressione, isolamento sociale
e suicidio, in un numero non trascurabile di casi.
In Italia il
numero di vittime del mobbing è stimato intorno a 1 milione e 200 mila, che
salgono a 5 milioni se si considerano anche le famiglie. In Svezia e Germania
circa mezzo milione di persone hanno dovuto ricorrere al prepensionamento o a
cliniche psichiatriche a causa del mobbing.
Negli ultimi
dieci anni i casi di mobbing denunciati hanno avuto un incremento esponenziale.
Il mobbing ha un forte costo sociale stimato il 190% superiore al salario annuo
lordo di un dipendente non mobbizzato. In Svezia si stima che il mobbing sia
causa del 20% dei suicidi.
Nei primi
anni '90, lo psicologo svedese Leymann
tenne in Italia una serie di conferenze che diedero inizio al dibattito
nazionale sul mobbing, con una decina d'anni di ritardo rispetto a Svezia e
Germania. Leymann estese il dibattito
sul mobbing dapprima in Germania e poi nel resto dei Paesi UE.
LA TUTELA
GIURIDICA
Un libro
verde del Parlamento Europeo, "Il mobbing sul posto di lavoro", del
16 luglio 2001, introduceva il dibattito in tema di mobbing in sede
comunitaria.
La
successiva risoluzione del Parlamento europeo sul mobbing sul posto di lavoro -2001/2339(INI)
- è uno dei primi riferimenti normativi in materia, non recepito
nell'ordinamento italiano.
La
risoluzione non è stata seguita da una direttiva europea, che obbligasse gli Stati
membri a legiferare in tema di mobbing.
IN ITALIA
In Italia
non esiste una legge in materia di mobbing e quindi il mobbing non è
configurato come specifico reato a sé stante. Gli atti di mobbing possono però
rientrare in altre fattispecie di reato, previste dal codice penale, quali le
lesioni personali gravi o gravissime, anche colpose che sono perseguibili di
ufficio e si ritengono di fatto sussistenti nel caso di riconoscimento
dell'origine professionale della malattia. La legge italiana disciplina anche
il risarcimento del danno biologico, associabile a situazioni di mobbing.
La
Costituzione italiana (artt. 2-3-4-32-35-36-41-42) tutela la persona in tutte
le sue fasi esistenziali, da quella di cittadino a quella di lavoratore.
Inoltre, sul datore di lavoro grava l’obbligo contrattuale, derivante dall’art.
2087 cod. civ., di tutelare la salute e la personalità morale del dipendente.
La Corte di Cassazione ha ritenuto[8] che un’iniziativa diretta alla
repressione, non già alla prevenzione dei fatti mobbizzanti non è idonea a
costituire adempimento agli obblighi previsti dall’art. 2087 cod. civ. Molti
comportamenti che caratterizzano il mobbing trovano inoltre una precisa
connotazione in numerosi articoli del codice penale (abuso d'ufficio, percosse,
lesione personale volontarie, ingiuria, diffamazione, minaccia, molestie).
Una sentenza
del Tribunale di Pisa afferma la non computabilità nella durata della malattia
delle assenze riconducibili alla violazione dell’obbligo aziendale di non aggravamento
del compromesso stato di salute del dipendente.
Un
successiva sentenza della Corte di Cassazione, la n. 572 del 2002, stabilisce
che un periodo di malattia eccedente i limiti previsti nel Contratto Collettivo
di riferimento non è giustificato motivo soggettivo di licenziamento, se la
malattia o invalidità permanente del lavoratore hanno una causa prevalente
nell'attività lavorativa, oppure se, sopraggiunte per cause indipendenti,
trovano nell'attività lavorativa una concausa aggravante, e il datore non
adibisce il lavoratore ad altre mansioni, purché sussistano in azienda.
La non
computabilità nella durata del periodo di malattia può essere interpretata come
estensione de facto del limite dei tre mesi, oltre il quale i CCNL legittimano
il licenziamento, oppure in un completo onere a carico del datore di lavoro,
che deve corrispondere il 100% della retribuzione per i periodi di assenza non
coperti dall'indennità di malattia.
Nel primo
caso, quota superiore al 50% della retribuzione è a carico dell'ente
previdenziale, come previsto per le assenze prolungate. L'INPS può, in
generale, però esercitare diritto di rivalsa su chi ha determinato la
malattia/invalidità e il pagamento della relativa indennità, come chi causa un
incidente stradale, o, nel caso in esame, il datore di lavoro.
L’accertamento
del danno da mobbing esige «una valutazione unitaria degli episodi denunciati
dal lavoratore, i quali raggiungono la soglia del mobbing ove assumano le
caratteristiche di una persecuzione, per la loro sistematicità e la durata
dell’azione nel tempo».
Secondo
l’avviso della Corte Costituzionale, infatti, gli atti posti in essere possono
risultare "se esaminati singolarmente, anche leciti, legittimi o
irrilevanti dal punto di vista giuridico", assumendo, purtuttavia,
"rilievo quali elementi della complessiva condotta caratterizzata nel suo
insieme dall’effetto" e risolvendosi, normalmente, in «disturbi di vario
tipo e, a volte, patologie psicotiche, complessivamente indicati come sindrome
da stress postraumatico».
La più
frequente azione da mobbing consiste nel dequalificare il lavoratore per
demotivarlo, farlo ammalare e costringerlo alle dimissioni, considerando che,
sul piano giuridico, il demansionamento è vietato perché costituisce sempre lesione
del diritto fondamentale alla libera esplicazione della personalità del
lavoratore nel luogo di lavoro, tutelato dagli artt. 1 e 2 della Costituzione;
il danno che ne deriva è suscettibile di per sé, di risarcimento (Cass. sez.
lav. 12 nov. 2002, n. 15868; Corte d’Appello di Salerno, sez. lav., 17 aprile
2002).
In effetti,
il mobbing sul posto di lavoro può realizzarsi con comportamenti datoriali,
materiali o provvedimentali, indipendentemente dall'inadempimento di specifichi
obblighi contrattuali o dalla violazione di specifiche norme attinenti alla
tutela del lavoratore subordinato. Quindi l'esistenza della lesione del bene
protetto e delle conseguenze deve essere valutata nel complesso degli episodi
dedotti in giudizio come lesivi, considerando l'idoneità offensiva della
condotta, che può essere dimostrata, per la sistematicità e durata dell'azione
nel tempo, dalle sue caratteristiche oggettive di persecuzione e
discriminazione, risultanti specificamente da una connotazione emulativa e
pretestuosa (Corte di Cassazione, sentenza n. 4774 del 6 marzo 2006, da Legge e
Giustizia Lettera telematica di notizie - Direttore responsabile Domenico
d'Amati).
Riguardo la
condotta, la Corte di Cassazione ha statuito che per mobbing si intende una
condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico, sistematica e
protratta nel tempo, tenuta nei confronti del lavoratore nell’ambiente di
lavoro, che si risolve in sistematici e reiterati comportamenti ostili che
finiscono per assumere forme di prevaricazione e di persecuzione psicologica,
da cui può conseguire la mortificazione morale e l’emarginazione del
dipendente, con effetto lesivo del suo equilibrio fisio-psichico e del
complesso della sua personalità. La prova di tale condotta involge un giudizio
di merito non censurabile in sede di legittimità. (Cass. 31/05/2011 n. 12048).
In proposito
dobbiamo ricordare che il Testo unico sulla sicurezza sul lavoro (come
modificato dal d.lgs. 3 agosto 2009 n. 106), pur non occupandosi esplicitamente
del fenomeno, ha previsto, presso Ministero del Lavoro, della Salute e delle
Politiche Sociali l'istituzione della Commissione consultiva permanente per la
salute e sicurezza sul lavoro[15][16] prevedendo tra le sue competenze
l'elabirazione delle indicazioni necessarie alla valutazione del rischio da
stress lavoro-correlato. Il testo unico ha inoltre disposto che, a fare data
dal 1° agosto 2010:
« La
valutazione dello stress lavoro-correlato di cui al comma 1 e' effettuata nel
rispetto delle indicazioni di cui all'articolo 6, comma 8, lettera m-quater), e
il relativo obbligo decorre dalla elaborazione delle predette indicazioni e
comunque, anche in difetto di tale elaborazione».
INIZIATIVE
LEGISLATIVE
Presso il
Parlamento italiano sono depositati diversi disegni di legge sul tema; manca
invece un orientamento comunitario in tema di mobbing.[senza fonte] Un primo
disegno di legge del 21 marzo 2002, presentato da senatori di Rifondazione
Comunista, è stato ripreso da una commissione tecnico-scientifica nominata dal
Ministro della Funzione Pubblica Franco Frattini, durante il primo governo
Berlusconi. La Commissione aveva l'incarico di accertare le cause di
improduttività del personale nella Pubblica Amministrazione ed era giunta a
definire un protocollo medico oggettivo del quale il giudice del lavoro poteva
avvalersi per accertare le cause di mobbing.
Il disegno
di legge, poi bloccato, conteneva la proposta di spostare la competenza delle
cause di mobbing dai tribunali ordinari alle preture del lavoro, con sentenze
immediatamente esecutive, e opponibili nel termine di 15 giorni, riportando le
cause di mobbing dai tempi di una causa civili alla celerità dei contenziosi in
materia di diritto del lavoro. La legge definiva il responsabile per la
sicurezza, non la controparte sindacale, ma il riferimento in azienda per le
vittime di mobbing, prevedeva rapidità nei risarcimenti, e conferiva al giudice
poteri di intervento nell'organizzazione aziendale per porre fine a pratiche di
mobbing.
TUTELA
GIURIDICA NEGLI ALTRI PAESI
In Germania
sono diffusi sul territorio centri d'ascolto a cui rivolgersi in caso di molestie
morali nelle aziende di maggiori dimensioni. Sempre in Germania è previsto il
prepensionamento a carico dell'azienda per i dipendenti riconosciuti vittime di
mobbing.
In Svezia
c'è la prima e più avanzata legislazione che prevede un reato di mobbing. La
Svezia ha in generale un'attenzione ai diritti umani che ha favorito il
dibattito sulle molestie morali.
Gli Stati
Uniti hanno una delle prime e più severi leggi sulle molestie sessuali sul
posto di lavoro, ma poca attenzione per questa materia.
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